Da quando il terremoto ha ferito la nostra terra, celebriamo la festa di San Benedetto “in tono minore”, con un velo di mestizia e tristezza, abbracciando di uno sguardo sconsolato le macerie della Basilica, delle case e degli edifici pubblici, ed esperimentiamo ogni volta sentimenti contrastanti: da una parte, la delusione, la frustrazione e la rabbia generate quotidianamente da una burocrazia che non solo non permette di dare l’avvio alla ricostruzione ma nemmeno di chiudere l’emergenza, con il rischio di rendere irreversibile la sofferenza del tessuto economico e sociale e di irrobustire prassi di veri e propri abusi, quando non anche di pratiche clientelari e corruttive; dall’altra, l’ammirazione per la tenacia della gente di montagna, fermamente attaccata alla sua terra, pronta ad affrontare privazioni e sacrifici, fiera e orgogliosa della sua storia e dei suoi monumenti.
Quest’anno, poi, la precarietà e l’impotenza che tutti esperimentiamo di fronte ad un nemico subdolo e invasivo e particolarmente dannoso come il Coronavirus, con la conseguente doverosa assunzione di modalità di comportamento per contrastarne la diffusione, ci fa sentire ancora più vulnerabili e indifesi, venendo a sovrapporsi ad una situazione già fragile, che genera pericolosamente solitudine e isolamento. Ai credenti duole particolarmente, oggi, non potersi riunire in piazza attorno all’altare per celebrare i Santi Misteri. Ma questa forzata dispersione non dice di una lontananza degli uni dagli altri, che anzi ci ritroviamo idealmente più vicini e più uniti che mai, coscienti come siamo che la condivisione della stessa umanità e la professione dell’unica fede intessono, costituiscono e continuamente rinsaldano legami indissolubili, che resistono all’usura del tempo e alle minacce della natura. E non vorremmo – e auspichiamo che così non avvenga – che la giusta e necessaria attenzione all’emergenza in corso distogliesse l’attenzione dalle urgenze dei nostri territori o – peggio – costituisse un alibi per ulteriori ritardi.
In un giorno tanto significativo per la comunità nursina non possiamo non rilevare – ahimé, ancora una volta – le gravi incongruenze che hanno accompagnato questo tempo: in meno di quattro anni dal sisma siamo al quarto Commissario straordinario; mentre in Cina in 12 giorni sorge dal nulla un ospedale specializzato e a Genova la ricostruzione del ponte Morandi, a meno di due anni dal crollo, procede a ritmo serrato, in Valnerina da quel 30 ottobre 2016 son passati 873 giorni e siamo al punto in cui siamo, a ricordare l’utopia del «non vi lasceremo soli» e gli slogan buoni per i social netwotk, a sognare e domandare ancora e sempre poche parole e molti fatti.
Non possiamo passare sotto silenzio la situazione dolorosa di circa 1700 persone ancora fuori casa in abitazioni provvisorie, con la difficoltà di realizzare anche minime opere senza infrangere leggi e decreti, costrette ad affrontare ogni giorno la fatica di vivere in un territorio che si sta spopolando, vede i giovani andare via, le aziende chiudere e i servizi trasferiti altrove. E non possiamo non rilevare con dispiacere che i cantieri di San Benedetto, di Santa Maria Argentea, di San Salvatore a Campi e di diverse altre chiese sono nuovamente fermi, che da troppi mesi si attende il risultato delle perizie geologiche che permettano di dare il via alla messa in sicurezza definitiva e al consolidamento della rupe che sovrasta il complesso abbaziale di Sant’Eutizio. Né possono essere costruttivi proclami e lettere di lamento e di sterile polemica, indirizzati ripetutamente fino alle più alte autorità dello Stato e della Chiesa, per recriminare su qualche scelta pratica compiuta o qualche opera realizzata.
In questo panorama tenebroso, sentiamo di aver bisogno più che mai di un raggio di luce e lo veniamo a cercare, mendicanti, presso la memoria viva del grande Santo di Norcia, Patriarca del Monachesimo occidentale, Patrono del continente europeo. Narra San Gregorio Magno nei suoi Dialoghi (II, 1) di un ostrogoto accolto dal Santo e da questi mandato, fornito di roncola, a liberare dai rovi un pezzo di terra che intendeva poi coltivare ad orto. Quello lavorava vigorosamente, tagliando con impegno cespugli di rovi, quando ad un tratto il ferro sfuggì via dal manico e cadde nel lago sottostante, proprio in un punto dove l’acqua era così profonda da non lasciare alcuna speranza di poterlo ripescare. Il Santo, venuto a conoscenza dell’accaduto, si recò immediatamente sul posto, prese il manico e lo immerse nelle acque. Sull’istante il ferro ritornò a galla e da se stesso si andò ad innestare nel manico. Benedetto rimise quindi lo strumento nelle mani del goto, dicendogli: «Ecco qui, seguita il tuo lavoro e non ti rattristare!».
È il messaggio che oggi ci rivolge il nostro Santo: un invito accorato a non cedere alla delusione e alla rassegnazione; a non coltivare nel cuore risentimenti e amarezze; a non rinunciare a guardare avanti nonostante tutto; a non ripiegarsi su se stessi e sul proprio piccolo interesse, sia esso personale, politico, di gruppo o di associazione; a fare ciascuno la propria parte, più visibile o più nascosta, per il bene di tutti. «Lavora e non ti rattristare». Non dunque una esortazione ad un buonismo superficiale e spensierato, ma una richiesta rivolta a ciascuno perché assuma le proprie responsabilità: allo Stato e alle sue Istituzioni, percepito così spesso lontano, distratto, lento e macchinoso nelle sue complicate procedure; all’Amministrazione regionale e locale, alle Associazioni, Comitati, Comunanze e Pro-loco; alla comunità ecclesiale diocesana e parrocchiale. «Lavora e non ti rattristare».
È vero: quando occorre il coraggio di ricominciare, spesso quel coraggio manca. Perché, ha spiegato Papa Francesco nel corso della sua visita a Camerino lo scorso anno, «ci vuole più forza per riparare che per costruire, per ricominciare che per iniziare, per riconciliarsi che per andare d’accordo. Questa è la forza che Dio ci dà. Perciò chi si avvicina a Dio non si abbatte, va avanti: ricomincia, riprova, ricostruisce. Soffre anche, ma riesce a ricominciare, a riprovare, a ricostruire» (Omelia, 16 giugno 2019).
Così ha fatto San Benedetto e così siamo chiamati a fare anche noi, nel nostro oggi gravato da tante contraddizioni ma anche abitato da un grande sogno: quello di vedere presto Norcia e gli altri paesi della Valnerina non solo ricostruiti nelle loro mura ma, soprattutto, nei legami e nelle relazioni umane, professionali e commerciali. I credenti sanno che, anche in questa circostanza, Iddio non fa mancare il dono del suo Spirito di sapienza e di fortezza, che suscita nel cuore di tutti, indistintamente, sentimenti di fraternità e di pace, desiderio insopprimibile di comunione e solidarietà, impegno a ricercare e costruire ogni giorno una società degna dell’uomo. Ed a questo fine non cessano di elevare la loro preghiera e di garantire la loro fattiva collaborazione.
San Benedetto ci ricorda che la preoccupazione per il bene comune si manifesta nella sollecitudine per il prossimo e in un aperto dialogo con i fratelli e sorelle in umanità, rispettandone la dignità ed essendo disponibili ad un’osmosi di reciproci contributi. Sono valori che egli instaurò opponendo lo spirito di fratellanza alla violenza, l’impegno operoso all’accidia, l’accoglienza e l’aiuto reciproco all’egoismo e all’autosufficienza, per porre i presupposti di una ripresa umana integrale. È di questo tipo di ripresa che ci sentiamo tanto bisognosi! La “lezione” del Santo risuona dunque particolarmente eloquente per noi tutti, chiamati alla grande opera della ricostruzione e al mutuo sostegno. Egli ci indica gli strumenti per operare rettamente: «Alleviare tutte le sofferenze, aiutare chi è colpito da sventura, soccorrere i poveri, consolare gli afflitti, non serbare rancore, non covare inganni nel cuore, non rendere male per male, dire la verità con la bocca e con il cuore, non abbandonare la carità» (Regula, IV passim). Qualità e atteggiamenti che gli chiediamo oggi di ottenerci con la sua fraterna preghiera e la sua potente intercessione.
+ Renato Boccardo
Arcivescovo di Spoleto-Norcia