Regione ecclesiastica dell’Umbria
Delegazione regionale Caritas
Contributo al Convegno ecclesiale regionale
1. Quali sono i deboli nei nostri territori
La storia della povertà coincide evidentemente con quella dell’umanità dei nostri territori e della nostra Regione. Uomini dalle condizioni disagiate rispetto ad altri in una situazione sociale per vari motivi più favorevole, sono stati presenti in tutte le società organizzate ed è per questo che il concetto di povertà è un concetto relativo. E certamente, la povertà nei territori della Regione, oggi più di ieri, assume carattere multiforme, dinamico, evolutivo.
Tale affermazione è desunta sia dal contenuto delle principali indagini sulla povertà realizzate dalla statistica pubblica: Reddito e condizioni di vita e Spese per i consumi delle famiglie, entrambe dell’ISTAT, ma soprattutto dai dati rilevati in decine e decine di “Centri di ascolto”, sparsi in tutti i territori, sostenuti dalle Caritas diocesane e parrocchiali. In molte Diocesi tali dati sono comunicati in diversi Rapporti annuali dai responsabili delle Caritas e dai vescovi ordinari.
Da ciò emerge un primo dato generale di rilievo, quello del numero medio di incontri annui per ogni persona presso i centri di ascolto. In dieci anni si è passati da 1,2 incontri per persona a 6,6 all’anno. Ciò significa che certi tipi di povertà richiedono sia interventi continuativi, sia un prendersi cura in senso globale della persona, necessità di “relazioni di prossimità” e non solo singoli gesti di solidarietà o di “elemosina”.
Un secondo dato, è quello che nella Regione, gli interventi effettuati per i cittadini stranieri non supera ormai da tempo quello degli italiani. Non solo, dal punto di vista economico, gli interventi per gli italiani hanno un “valore” assolutamente superiore. Ciò per dire che la percezione generale di sbilanciamento di “solidarietà” verso gli stranieri, del resto per quello che può valere, non è assolutamente veritiera.
Complessivamente i bisogni rilevati in Regione:
• Povertà economica (La povertà economica, in massima parte, è dovuta o a reddito insufficiente o ad assenza di reddito)
• Problemi di occupazione
• Problemi abitativi
• Problemi familiari
• Problemi di salute fisica e mentale
• Problemi di povertà educativa
• Problemi legati alla condizione di immigrato
• Handicap
• Solitudine
• Dipendenze (alcol, droga, gioco)
• Il degrado ambientale non sembra invece entrato nella percezione dei fedeli come una delle cause di povertà e di rischio per la salute.
Inoltre, sembra assolutamente efficace l’affermazione di Papa Francesco (da l’Osservatore Romano): “Che cos’è la povertà? Di questo solitamente si tace, si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, in formazione, per progettare un nuovo welfare e per salvaguardare l’ambiente. È giusto, ma il vero problema non sono i soldi che da soli non creano sviluppo. La loro mancanza è diventata una scusa per non sentire il grido dei poveri e la sofferenza di chi ha perso la dignità di portare a casa il pane perché ha perso il lavoro. Il rischio è che l’indifferenza ci renda ciechi, sordi e muti, presenti solo a noi stessi con lo specchio davanti. Uomini e donne chiusi in se stessi. C’era qualcuno così che si chiamava Narciso. Quella strada no. Noi siamo chiamati ad andare oltre, il che vuol dire allargare, non restringere, creare nuovi spazi e non limitarsi al loro controllo. Andare oltre significa liberare il bene e goderne i frutti”.
2. Esistono nella comunità o nelle zone luoghi, tempi, servizi di accoglienza e di ascolto, di consolazione e di compassione, di misericordia?
La Bibbia non fa distinzione tra i poveri, ma invita ad occuparci di tutti, qualsiasi sia la loro condizione e provenienza. Nelle Sacre Scritture, troviamo le ragioni dell’accoglienza, dai patriarchi alla parabola di Gesù sul giudizio finale: Non si tratta solo di difendere il diritto dello straniero, ma di assumere lo stesso atteggiamento di Dio nei suoi confronti, quello dell’amore”.
Alla luce di Sacre Scritture, etica e realtà, permane per i credenti il richiamo all’accoglienza, che “per noi cristiani non è un optional”, al di là di ogni tipo di legislazione e certo non per opporsi a leggi che comunque devono governare fenomeni come quello delle migrazioni, con cui ci dobbiamo misurare.
In ogni chiesa diocesana vi sono “opere di misericordia” e luoghi specifici per l’ascolto, la solidarietà e l’accoglienza. Ma tutto ciò, se da un lato appare un traguardo – per come era organizzata la vita ecclesiale solo un decennio fa – dall’altro, è altrettanto evidente come la “carità della Chiesa” non è collegata, se non sporadicamente, con la vita liturgica e soprattutto catechetica delle parrocchie o delle zone pastorali.
Così i “luoghi” dell’accoglienza oggi potrebbero costituire una sfida formativa per la Chiesa.
Una sfida formativa per l’integrazione di catechesi e carità liturgia. È ormai evidente a chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità che sulla capacità di accoglienza si gioca la nostra condizione di esseri umani o, al contrario, il nostro scivolare sempre più in quella barbarie che si vedono affiorare qua e là, sempre più insistentemente. Non a caso, l’accoglienza è stato il “grande” segno del Giubileo della Misericordia, un segno che può testimoniare la concretezza del Vangelo e l’autenticità della nostra conversione. Accoglienza è pratica di solidarietà, è esercizio di giustizia, è affermazione del diritto alla esistenza. Come può tutto questo non essere organicamente presente nelle celebrazioni e nei percorsi educativi?
La delegazione Regionale riscontra che c’è bisogno di un’educazione all’accoglienza da far emergere in tutti i luoghi della vita quotidiana; c’è bisogno di un’informazione onesta e non ideologizzata; c’è bisogno di far crescere un dialogo adulto e fraterno tra culture e etnie diverse.
3. Quale atteggiamento prevalente circola nella nostre comunità nei confronti delle persone che mostrano i segni delle ferite?
Per capire facilmente l’atteggiamento prevalente di oggi nei confronti delle povertà e dei poveri, anche nelle nostra chiese, si potrebbe ricorrere ad una metafora tratta dalla storia della Chiesa stessa. Il povero era stato fino a gran parte del Medioevo un simbolo di valori cristiani: in ogni povero c’era la sofferenza di Cristo e la stessa elemosina più che un carattere di solidarietà sociale assumeva un valore religioso. Ma successivamente, la figura del povero prima assimilata a quella dell’eremita, del viandante pellegrino, è venuta via via confusa con quella di un “esercito minaccioso di miserabili”. Le istituzioni cittadine cominciarono allora a distinguere tra la povertà “vera” da quella “falsa”, comprendendo nella prima i malati, coloro che non potevano più mantenersi per motivi fisici, i ragazzi e i bambini abbandonati dalle famiglie, i vecchi che non potevano più lavorare ma che avevano lavorato in passato. Vi erano poi i poveri organizzati in “compagnie” come quelle dei ciechi e degli storpi riconosciute dall’assistenza pubblica. Ma gli altri indigenti, soprattutto la moltitudine dei poveri occasionali che chiedevano l’elemosina, esclusi da corporazioni e confraternite, cominciarono ad essere denigrati e colpiti da leggi repressive senza più alcun significato pastorale.
Nella nostra contemporaneità sembra ripetersi lo stesso schema: non è la situazione di bisogno, qualunque esso sia, a riconoscervi il bisogno “del nostro Signore”, ma è il giudizio dell’ideologia che domina i media ad indicare chi è povero e chi no, chi merita del nostro aiuto e chi no; non è più la pastorale a guidare l’opinione dei fedeli sulle forme di carità, bensì istituzioni e agenzie esterne alla Chiesa.
In questo senso, si crede, che occorra leggere anche la “crisi del volontariato” anche nella Chiesa. La dimensione della gratuità, che scaturisce direttamente dalla conversione dei cuori, non sembra più essere interessante per i cristiani di oggi.
Non a caso che Francesco sempre ricorda che il cristiano è una persona che accoglie, accogliere significa fidarsi, abbattere i propri muri per riuscire ad intravvedere la pienezza dell’amore, accogliere è fare lo sforzo di aprire le porte di casa, le porte del cuore, aprire i propri confini a chi viene a bussare: “Com’è bello immaginare le nostre parrocchie, comunità, cappelle, dove ci sono i cristiani, non con le porte chiuse, ma come veri centri di incontro tra noi e Dio. Come luoghi di ospitalità e di accoglienza“.
Todi, 07.05.2019
Il Delegato Regionale
Marcello Rinaldi