Vi offro qualche spunto di riflessione su questa lettura breve appena proclamata (Col 1, 3-6).
È un piccolo spaccato, ma tanto intenso, sulla vita di una delle comunità cristiane dell’Asia minore. Uno spaccato in cui risplende la comunione di preghiera tra l’apostolo, al quale è attribuita la lettera, e i cristiani ai quali si rivolge.
Un quadretto che tratteggia le dimensioni fondamentali della loro esperienza di fede.
Un dato ci colpisce, leggendolo nel contesto della nostra assemblea. Quello della comunità di Colossi è una realtà cristiana in “crescita”. I cristiani di Colossi hanno accolto il Vangelo come “parola di Verità”, e l’apostolo si rallegra per il fatto che esso “in tutto il mondo fruttifica e si sviluppa”.
A distanza di duemila anni, guardando la situazione della nostra Umbria dentro il quadro generale dell’Italia e dell’Europa, noi oggi siamo tentati di intonare il lamento.
Dov’è il cristianesimo che ha plasmato le nostre terre? Dov’è Francesco? Dov’è Benedetto? Dove il cristianesimo che ancora tanti vengono ad onorare riversandosi da tutto il mondo sui passi dei nostri eroi, che ancora parlano al mondo, e ancora ci offrono lo scenario in cui un Papa può persino – come ha fatto papa Francesco per il prossimo anno – convocare ad Assisi le energie più giovani e promettenti dell’economia mondiale?
Il cristianesimo, che ha fatto la storia delle nostre terre, diventa sempre più evanescente e marginale, sotto i colpi di processi culturali e sociali che svuotano le nostre case di famiglia, di vita e di fede, rendendo la nostra cultura, pur erede del messaggio evangelico, una cultura che di esso conserva certo alcuni valori fondamentali – quelli che hanno plasmato la nostra società diventando persino cultura politica – ma che sempre più stentatamente onora proprio il cuore pulsante dell’annuncio evangelico: Gesù, nella sua verità di “pienezza divina”, come la lettera ai Colossesi lo presenta, poco dopo questi versetti, in un potente inno, analogo a quello che la liturgia ci ha appena messo in bocca nella lettera gemella agli Efesini.
È su questa verità, la verità di Cristo che il cristianesimo si distingue, sta in piedi o cade.
Una verità che già nella prima evangelizzazione dovette essere accuratamente difesa, come appare anche nella lettera ai Colossesi. La fede appena germinata era già alle prese con la tentazione di annacquamenti dovuti a influenze culturali che l’intervento apostolico deve arginare.
In questi versetti prevale il positivo. Paolo rende grazie per le notizie ricevute circa la fede dei suoi destinatari. Rende grazie non solo per la fede: ringrazia anche per la carità che essi mostrano verso tutti i “santi”, ossia, nel gergo paolino, i cristiani stessi santificati dall’unica immersione nel Cristo.
È il quadro di una comunità che sa farsi comunione, cuor solo e anima sola, in un’operosa sollecitudine fraterna.
L’apostolo ringrazia infine per la speranza, che in queste parole è colta nella sua proiezione celeste, ma che, per essere speranza autenticamente cristiana, non può certo dimenticare questa terra, e dunque non può essere motivo di alienazione e disattenzione al mondo, ma al contrario dev’essere motivo per rimboccarsi le maniche nella sua costruzione secondo il cuore di Dio.
Fede, speranza e carità sono così intrecciate, che la mancanza dell’una pregiudica e devitalizza l’altra. Sono l’unico programma della vita cristiana, centrato su Cristo e il Vangelo come parola di verità.
Sarebbe bello anche per noi poter dire, come dice qui l’apostolo, che il vangelo si “moltiplica” e porta frutti in tutto il mondo.
Oggi siamo piuttosto tentati di dire che diminuisce e porta sempre meno frutti, stando a quanto la cronaca e le statistiche impietose ci documentano.
E tuttavia la re-immersione negli accenti delle origini cristiane è sempre ispirante e motivo di speranza.
Il miracolo delle origini può ridiventare il miracolo del terzo millennio cristiano. Il Risorto è lo stesso ieri, oggi e sempre (Eb 13, 8). E la forza della Pentecoste continua ad abitare le profondità della Chiesa come sorgente sempre viva.
Tocca a noi il coraggio di “rituffarci” nell’originario cristiano, ritemprarci all’acqua viva delle sorgenti, riprendere, per la nostra gente, l’annuncio della bella notizia come annuncio di vera gioia.
Lo facciamo senza la pretesa di prevedere e calcolare i risultati. Al seminatore spetta seminare. Il tempo del raccolto è nelle mani di Dio.
Ma intanto, anche in queste brevi espressioni appena proclamate attingiamo il motivo per ringraziare, anzi, la logica del grazie, la logica “eucaristica”, che anche nei frangenti meno facili e più problematici, ci impedisce di abbatterci e ci sprona all’entusiasmo della ripresa.
È quanto ci ripromettiamo, con l’aiuto di Dio, in questa nostra Assemblea.